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Il padrone della rabbia

E’ in pieno atto una piccola ma nutrita rivolta verso quel luogo che fu Twitter, prima di essere comprato e rimarchiato dal megalomane Elon Musk. Giovedì scorso ho disattivato il mio account (@sostienemenelao). Da qualche tempo mi ero iscritto su BlueSky (@menelaomaritozzi.bsky.social). Un’alternativa a Twitter nata proprio per accogliere gli scontenti dell’ex uccellino dopo l’avvento di quella (peraltro piuttosto inestetica) X imposta dal nuovo padrone. Un cambio estetico che purtroppo il tempo ha denunciato essere anche e soprattutto sostanziale. Perchè la piattaforma si è poco a poco trasformata, grazie a deliberate scelte sull’uso dell’algoritmo che la governa, in uno sfogatoio sociale in cui la rabbia e la contrapposizione a cazzo di cane è diventato il perfetto laboratorio politico per il peggior populismo di destra. Quello che poi, guarda caso, si è ripreso gli USA con la recentissima elezione del Trump II, con coprotagonista (ma che mira chiaramente alla successione tout court) del nuovo padrone della rabbia, al secolo Elonio.

Insomma, non è una questione di radicalismo chic o di isolazionismo, come qualcuno scrive in queste ore. E’ una questione sostanziale: non si può rimanere a produrre dibattito laddove questo è utilizzato strumentalmente per favorire determinate tesi e soprattutto con un determinato metodo. Si diventa inevitabilmente utili idioti. Un ruolo che, per carità, ognuno di noi svolge ormai abitualmente in tantissimi contesti legati all’uso della rete. Ma come si dice, quando è troppo è troppo.

Le parole sono importanti

Poco prima dello scoccare delle 7, torno sul mio caro diario. Perchè leggere ha questo grande ulteriore riflesso sulla vita: ti fa venire voglia di scrivere. Sto leggendo, sono quasi alla fine, “Il naufragio”. Un altro splendido lavoro di Alessandro Leogrande. Sì, colui che ho scoperto in quelle notti isteriche e disperate di qualche anno fa con “La frontiera”. Stavolta il naufragio raccontato è quello del piccolo battello Kater i Rades (28 marzo 1997 – Canale d’Otranto), stracarico di albanesi in fuga dalla guerra civile e dalla miseria. Un affondamento ad opera dello Stato italiano, nonostante le responsabilità penali dei vertici della Marina non siano mai state acclarate per via di un’organizzatissima ed immediata opera di insabbiamento messa in atto dai coinvolti. Una tragedia che si è mangiata le vite, tra corpi recuperati e dispersi, di 81 persone (questo il conto ufficiale, probabilmente sottostimato). Una tragedia che, oltre ai responsabili della Marina che hanno gestito le operazioni in mare, ha un mandante occulto ma responsabilissimo: noi italiani. Perchè le manovre spericolate in mare aperto della nave militare Sibilla contro il piccolo battello stracarico di persone sono il frutto della cosiddetta “opinione pubblica”. Quella sorta di mormorio collettivo che, irrazionale e confuso, decide di volta in volta contro chi puntare il dito per provare a placare la paura del vivere. Ieri come oggi, e come purtroppo temo domani, l’immigrazione è un obiettivo fin troppo facile. Perchè non c’è gioco emotivo più facile che sentir minacciato il proprio orticello di serenità duramente conquistata da chi fugge dalla paura non solo del vivire ma financo del morire. Quel mormorio si sparge nei luoghi di lavoro, nei bar, negli uffici postali, ed oggi dilaga sui social. Ma poi finisce nelle urne elettorali, quelle che in democrazia selezionano i rappresentanti del popolo nelle istituzioni. E così ti ritrovi che quel mormorio confuso, irrazionale e quasi sempre figlio di qualche rabbia, diventa espressione politica. Il popolo vuole Barabba libero, e si trovano sempre parecchi Ponzio Pilato per assecondarlo e così arrampicarsi nelle istituzioni democratiche. “Bisogna sparare sulle imbarcazioni”, “ci vuole il blocco navale”. Sono espressioni utilizzate in campagna elettorale dalle attuali forze al governo in Italia, ma rintracciabili (magari in altre forme verbali) in ogni paese che sia destino di immigrazione. Cambiano le rotte ed i mezzi di trasporto, ma la retorica bellicista contro l’umanità in fuga non cambia mai.

I vertici della Marina quella sera del 28 marzo 1997 non erano stati invasi da pazzi odiatori di immigrati, rispondevano ad un chiaro mood (come si dice oggi) politico. Al tempo c’era il centrosinistra al governo dell’Italia, a confermare che su queste tematiche non c’è destra o sinistra che tenga, conta solo il mormorio popolare dominante. Un mood che raccontava l’immigrazione dalla vicina Albania come un pericolo primario per il nostro paese. Un pericolo che richiedeva “fermezza”, “mano dura”, e via discorrendo. Altre parole, altra violenza verbale. Per questo si è arrivati a far speronare un piccolo battello stracarico di persone da una enorme nave militare.

Come diceva Nanni Moretti, le parole sono importanti. Ognuno di noi le butta lì, nel chiacchericcio locale, oggi diventato incessante e globale con l’arrivo dei social, più o meno consapevole in fondo che sono il frutto della propria piccola visione e miseria umana. Un’autogiustificazione per considerarle innocue, ininfluenti. Ma come per il famoso battito di ali della farfalla, le parole si ammucchiano e formano “opinione pubblica”, che poi diventa politica, che poi diventa azione, che infine diventa violenza dura e pura contro i malcapitati: coloro che il destino mette nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il cerchio si chiude: la violenza verbale è diventata violenza e basta.

Ed allora Alessandro Leogrande, che purtroppo ci ha lasciati, lo dobbiamo ringraziare tutti. Perchè ha provato ad usare le parole per farci capire l’importanza che possono avere sulla vita e la morte delle persone. Come cantava Jannacci nella sua splendida “La fotografia”: “…perché la gente, sai, magari fa anche finta, però le cose è meglio fargliele sapere”.

La fotografia – Enzo Jannacci

Uhe, no, scusa, guarda la fotografia
Sembra neanche un ragazzino
No, io, io son quello col vino
Lui, lui è quello senza motorino

Così adesso che è finito tutto e sono andati via
E la pioggia scherza con la saracinesca della lavanderia
No, io aspetto solo che magari l’acqua non se lo lavi via
Quel segno del gesso di quel corpo che han portato via

E tu, maresciallo, che hai continuato a dire: “Andate tutti via, cosa fate?
Qui non c’è più niente da vedere, niente da capire… circolare, via!”
Credo che ti sbagli perché un morto di, di soli tredici anni
È proprio da vedere, perché la gente, sai, magari fa anche finta
Però le cose è meglio fargliele sapere

E guarda la fotografia
Sembra neanche un ragazzino
Io, io son quello col vino
Lui è quello senza motorino

Era il solo a non voler capire d’esser stato sfortunato
Nascere in un paese dove i fiori han paura e il sole è avvelenato
E sapeva quanto poco fosse un gioco… e giocava col destino
Un destino col grilletto e la sua faccia, la sua faccia nel mirino

È finita la pioggia, tutto il gesso se l’è portato via
Lo so che ti dispiace maresciallo, ma appoggiato alla lavanderia
Era il mio, era il mio di figlio e forse è tutta colpa mia, perché, vedi…
Come in certi malgoverni, se in famiglia il padre ruba
Anche il figlio a un certo punto vola via

E così lui, no, non era lì per caso, no
Anche lui sparava e via
Ma forse il gioco s’era fatto stanco e non s’è neanche accorto
Che moriva

Guarda la fotografia
Sembra neanche un ragazzino
Io son quello col vino
Lui, lui è quello senza motorino

Guarda la fotografia
Sembra neanche un ragazzino
Io son quello col vino
Lui è quello senza motorino

La fotografia, la fotografia, la fotografia…
Tutto il resto è facce false della pubbliciteria
Tutto il resto è brutta musica fatta solamente con la batteria
Tutto il resto è sporca guerra stile, stile mafieria
La fotografia… la fotografia…
Tu, sì tu, tu che sei famoso… firma, firma, per piacere, la fotografia

Scriversi addosso

Il primo scritto di questo blog di estrema periferia mentale si intitolava: “Antò, fa caldo!“. Era l’agosto 2015, poco prima della settimana di Ferragosto. Dopo 8 anni sono qui, durante la settimana di Ferragosto, per tornare sul luogo del delitto.

Nel frattempo, seppur molto sporadicamente, qualche articolo ha arredato in una qualche maniera lo spazio desolato. Come quando si fanno quei progetti per rinverdire le aree periferiche e si mette qua e là qualche piantina che, ammesso riesca a sopravvivere, riesce solamente a segnalare ulteriormente il destino di desolazione del luogo. I contributi comparsi in questi 8 anni non solo non hanno dato un’identità a questo spazio, ma sembrano sottolinearne un suo destino.

La premessa farebbe pensare quindi che queste righe precedano gli inevitabili titoli di coda su un film piuttosto sperimentale. Ma con questo caldo (che nel frattempo è aumentato, anche se si litiga sulle possibili cause) si diventa diabolici. E così, dopo aver sbagliato e peccato, viene l’irresistibile voglia di perseverare. Se non altro per l’urgenza, di tanto in tanto, di scriversi addosso.

Genova 2021, dal mio orticello

La zingarata genovese dei giorni scorsi è alle spalle, ma c’è ancora voglia di capirle meglio quelle assurde giornate del 2001. Per leggere particolari che il presente dell’epoca, più che mai tumultuoso e caotico, ha inevitabilmente inghiottito e nascosto alla percezione anche di chi, come il sottoscritto, ne ha fatto parte.

Stamattina ho cercato e trovato su Sky Documentaries il documentario trasmesso pochi giorni or sono: “La sottile zona rossa”. Un documento che si concentra sulla giornata di venerdì 20 luglio 2001. Quella a cui io, dopo aver partecipato alle uniche manifestazioni pacifiche contro quel G8 andate in scena giovedì 19 luglio e subodorando la palese tensione che si respirava per quelle in arrivo, decisi di rinunciare, rimanendo al campeggio La Vesima con i miei compagni di viaggio di allora.

I testimoni scelti per ricostruire quella giornata sono vari e tutti molto interessanti. Innanzitutto la redazione di Primocanale, emittente ligure. L’unica che, disobbedendo agli ordini delle istituzioni, scelse di seguire il G8 non rimanendo dentro il fortino della zona rossa. Ci sono poi Don Gallo, Franca Rame, le tute bianche, la rete Lilliput. Ed infine c’è un comandante di battaglione della Polizia, la cui testimonianza è molto utile a cercare di comprendere qualche frammento di come quella giornata è stata vissuta da chi indossava la divisa delle forze dell’ordine.

Il tutto è molto ben assemblato e fa capire, a chi ancora non volesse capirlo, che quanto successo a Genova durante la riunione del G8, presenta una complessità che non permette il solito schierarsi per bande, in cui ognuno fa finta di credere di essere il buono e giusto contro i cattivi e violenti.

Genova è stata offesa in quei giorni da tanti. Al teatro blindato e farlocco preparato dal governo Berlusconi per ricevere gli 8 potenti del pianeta, si è risposto con l’allestimento di un altro teatro al di fuori della zona rossa. Un palcoscenico dove in troppi, ognuno con la propria divisa da combattimento, ha voluto dare il peggio di sè. Frustrazioni personali e rabbia sociale hanno trasformato Genova in un enorme fight club. Il Cigno Nero era nell’aria. Evocato all’infinito, quasi fosse un bisogno per ambedue le parti in lotta, è diventato realtà alle 17.27 di quel venerdì 20 luglio 2001 con l’immagine di un ragazzo steso in terra con una pallottola in testa. Perchè non c’è guerra senza morti. Perchè l’uso della violenza ha implicitamente il rischio che il dosaggio scappi di mano e cancelli la vita di qualcuno.

Non è una stupida voglia di fare il 50enne pentito ed improvvisamente democristiano. E’ piuttosto la sensazione che, scavando nelle ricostruzioni che solo il tempo ha permesso di accertare, e senza voler minimamente intromettermi nella dolorosa dinamica che ha portato all’uccisione di Carlo Giuliani, quel venerdì 20 luglio 2001 ha avunto tanti creatori/realizzatori concentrati sull’allestimento del fight club. Un allestimento che ha peraltro quasi del tutto cancellato le istanze politiche che quel movimento, pur nella sua enorme diversità e confusionarietà, cercava di portare avanti.

Ad un certo punto il comandante di battaglione di Polizia Andrei si chiede dove siano oggi quegli ex ragazzi del 2001. “Ognuno, come tutti, a difendere il proprio orticello acquisito”, si risponde, provocatoriamente. Una frase che mi sono sentito addosso, come un vestito su misura. A distanza di 20 anni da quei fatti e dalla mia partecipazione (nelle giornate di giovedì 19 e sabato 21), il mio attivismo politico è praticamente azzerato e mi sento ritirato appunto a badare al “mio orticello”. Rappresentato, volendolo sintetizzare, ma nemmeno troppo, da una famiglia e da un conto in banca. Che come cantava il genovese De André “danno rendite sicure”.

Certo, è indubbio che i fatti di Genova, con l’assurda e stavolta sì unilaterale repressione (stile dittatura latinoamericana) andata in scena sabato 21 luglio 2001, hanno fortemente consigliato una generazione intera a ritirarsi verso il proprio orticello per impraticabilità democratica del latifondo. Ma sta di fatto che, un po’ come era già successo alla generazione del ’68, ognuno ha smesso di pensare ad una salvezza collettiva per provare a salvare il proprio fugace tempo esistenziale.

SanPa

Ho finito adesso di vedere il quinto ed ultimo episodio di “SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano”. Una docuserie sbarcata da poco su Netflix, che è riuscita subito a rimandare in subbuglio l’alveare San Patrignano. Un alveare, come la serie ben documenta, da sempre abituato a scatenare pericolosi sciami di opinione pubblica, l’un contro gli altri armati.
C’è chi ancora oggi chiede la santificazione di Vincenzo Muccioli, deus ex machina di quel progetto, e chi lo considera un manipolatore violento che ha acquisito potere, denaro e popolarità arrampicandosi sulle sofferenze di un’umanità devastata dalle droghe pesanti degli anni ’80.

Eccolo allora il primo ed enorme merito della serie: mandare al macero questa assurda contrapposizione tra bianco e nero, tra santo e diavolo, tra salvatore di vite e spregiudicato omicida. “SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano”, dà la parola a tutti (pubblicando alla fine anche i nomi di coloro che hanno preferito non parlare). Mette in fila in maniera metodica l’ampio materiale di cronaca che ha segnato le vicende di quella comunità. Lo spettatore, racconto dopo racconto, filmato di repertorio dopo filmato di reportorio, può farsi un quadro dei fatti e provare a tirare le proprie conclusioni.

Per chi, come il sottoscritto, quella vicenda ha potuto viverla da contemporaneo attraverso le cronache ed i dibattiti che via via si sviluppavano, la serie è un’incredibile occasione per osservarla finalmente nella sua integrità storica. Ed è proprio questo l’altro prezioso contributo che la serie offre: mostrare come cambiano le lenti con cui osserviamo e descriviamo la realtà man mano che il tempo svolge il suo ruolo di sedimentazione.

I moltissimi racconti degli ex ospiti di San Patrignano, soprattutto di coloro che possono essere considerati a tutti gli effetti co-fondatori della comunità, sono spesso messi a confronto con ciò che loro stessi facevano e dicevano al tempo dei fatti. Emergono inevitabili, ed a volte imbarazzanti, discrepanze. Sulla base delle quali, chi non ha mai voluto dismettere il metodo del “chi non è con noi, è contro di noi”, li ha fin troppo facilmente bollati come “traditori”.

Ed invece quel confronto temporale dei protagonisti con se stessi dimostra allo spettatore come solo il tempo ed una prospettiva più completa e depurata dalle emozioni del presente consentono di vedere la realtà dei fatti nel suo quadro più complessivo. Un quadro che a quel punto, e solo a quel punto, consente di tenere insieme, come sempre succede nelle vicende umane, le “tenebre” e le “luci”, appunto.

Per questo è decadente ascoltare le polemiche di chi, di fronte alla preziosa opportunità offerta dalla serie di riparlare a mente fredda di San Patrignano e del suo fondatore Vincenzo Muccioli, descrive il documentario come un’operazione puramente diffamatoria, quasi chiedendone una censura. Dando così l’idea che il tempo, ed i fatti emersi e sedimentati, non abbiano minimamente scalfito la disperata necessità di avere certezze inattaccabili, allora come ora, costi quel che costi. Il famoso, e foriero di molte disgrazie, “o sei con noi o sei contro di noi”. Un meccamismo di difesa che può risultare comprensibile quando a parlare è il figlio di Vincenzo Muccioli, Andrea, inevitabilmente troppo coinvolto emotivamente, fin da quando era un bambino, in quel progetto totalizzante che, come dice lui stesso, gli ha sottratto un padre per portarlo dentro una famiglia allargata a centinaia di persone. Diventa invece semplicemente stucchevole ascoltare, ancora oggi, persone che parlano dei morti e delle violenze accertate a San Patrignano come inevitabili e quasi trascurabili effetti collaterali. E di Vincenzo Muccioli come una sorta di santone a cui si può solo essere fedeli.

Fabio Cantelli, partito come ospite di San Patrignano e finito come responsabile delle pubbliche relazioni allorché la comunità ha dovuto affrontare le conseguenze dei crimini commessi al suo interno, è una delle testimonianze più importanti e toccanti della serie. Perchè con la sua stessa vita, come del resto quasi tutti i protagonisti interpellati nel documentario, è stato testimone delle luci e delle tenebre di San Patrignano. Il suo racconto tiene insieme l’amore e la gratitudine per la creatura di Vincenzo Muccioli, che lo ha restituito ad un’esistenza piena e consapevole, con la giusta capacità di critica verso un progetto che ha visto snaturarsi nel tempo. E’ lui ad affermare come all’epoca dei processi scaturiti dall’assassinio di Roberto Maranzano sarebbe stato più giusto e virtuoso ammettere di fronte all’opinione pubblica determinati errori commessi nel cammino di crescita esponenziale della comunità. Questo avrebbe avuto effetti benefici verso l’esterno ma, soprattutto, verso l’interno della comunità. Si è scelto invece sempre ed ostinatamente di difendere il fortino, per continuare a idealizzarlo e venderlo come luogo di sola armonia, vita e rinascita.

Noi contro loro. O sei con noi o sei contro di noi. E soprattutto, taci il nemico ti ascolta, quello che succede nel fortino non deve uscire dal fortino.

SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano” quel fortino l’ha voluto raccontare, senza omissioni e senza volergli essere né amico, né nemico.

Il Cantico dei drogati (Fabrizio De Andrè)

Ho licenziato Dio
gettato via un amore
per costruirmi il vuoto
nell’anima e nel cuore.

Le parole che dico
non han più forma né accento
si trasformano i suoni
in un sordo lamento.

Mentre fra gli altri nudi
io striscio verso un fuoco
che illumina i fantasmi
di questo osceno giuoco.

Come potrò dire a mia madre che ho paura?

Chi mi riparlerà
di domani luminosi
dove i muti canteranno
e taceranno i noiosi.

Quando riascolterò
il vento tra le foglie
sussurrare i silenzi
che la sera raccoglie.

Io che non vedo più
che folletti di vetro
che mi spiano davanti
che mi ridono dietro.

Come potrò dire a mia madre che ho paura?

Perché non hanno fatto
delle grandi pattumiere
per i giorni già usati
per queste ed altre sere.

E chi, chi sarà mai
il buttafuori del sole
chi lo spinge ogni giorno
sulla scena alle prime ore.

E soprattutto chi
e perché mi ha messo al mondo
dove vivo la mia morte
con un anticipo tremendo?

Come potrò dire a mia madre che ho paura?

Quando scadrà l’affitto
di questo corpo idiota
allora avrò il mio premio
come una buona nota.

Mi citeran di monito
a chi crede sia bello
giocherellare a palla
con il proprio cervello.

Cercando di lanciarlo
oltre il confine stabilito
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito.

Come potrò dire a mia madre che ho paura?

Tu che m’ascolti insegnami
un alfabeto che sia
differente da quello
della mia vigliaccheria.

2021, la vendetta

Buongiorno dal 2021! La prima notizia è che ci siamo arrivati. La grande lezione del 2020, un anno che in troppi vogliono buttare rapidamente e stupidamente nella spazzatura, è dal mio punto di vista molto chiara: mai dare niente per scontato o acquisito definitivamente. Da microesseri temporali quali siamo, dovremmo riconoscere molti meriti a questo 2020 appena terminato. Ci ha ribadito, se ancora ce ne fosse bisogno, l’assurdità dell’uomo che cerca di farsi dominatore del tempo e dello spazio. Ci ha fatto capire che il concetto di “limite”, in ogni sua dimensione esprimibile, dovrebbe essere la base razionale di ogni essere vivente a cui viene concessa l’opportunità di una rapidissima comparsata nella millenaria storia dell’universo.

Ed invece eccoci qua, a caricare a bestia questo 2021 appena nato di responsabilità e paroloni pesantissimi. Rinascita! Resurrezione! Riscatto! Ritorno al nostro Stile di Vita!

Più che un nuovo anno sembra una vendetta. Come in quei film dal copione un po’ scontato in cui, dopo i rovesci sopportati, arriva il momento di riprendere il dominio.

George W. Bush per smarcarsi dai limiti imposti dal Protocollo di Kyoto affermava che “lo stile di vita americano non è negoziabile”. Ebbene, usciamo da un anno che ha mandato in frantumi lo stile di vita dell’intero pianeta, portandosi via nel cammino 2 milioni di persone per il solo coronavirus. Forse per il neonato anno ci starebbe meglio un riflessivo “abbiamo un problema, Houston”, piuttosto che ostinarci a rimuovere in fretta il 2020 per immedesimarci in improbabili Rambo alla “quello che voi chiamate Inferno… lui lo chiama Casa”.

America me senti!?

Finisco di vedere “Borat – Seguito di film” mentre dagli USA arriva la notizia che Joe Biden (in coppia con l’ottima Kamala Harris) è il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Un tempismo perfetto. Non c’è dubbio sul fatto che il film di Sacha Baron Cohen, visto da milioni di persone grazie alla distribuzione su Amazon Prime Video, abbia dato il suo apporto alla caduta della stupidità trumpiana. L’America ha deciso non fosse il caso di fare figure di merda mondiali per altri 4 anni.

Trump se ne andrà, nonostante tutto, dopo aver incassato tantissimi voti. Voti di persone che, come mostra benissimo “Borat”, rimarranno nella vita quotidiana americana con le proprie assurde convinzioni ed una visione del mondo semplicemente incompatibile con una convivenza pacifica in società sempre più complesse e differenziate. Magari però, poco a poco e con un duro lavoro politico, queste persone torneranno almeno a vergognarsi della propria ignoranza. Continuando magari a diffondere le proprie assurde teorie complottiste o religiose e non accettando nulla che vada oltre il proprio piccolo mondo antico. Ma come succede laddove la politica prova a svolgere correttamente il proprio ruolo di regolatore sociale, verranno tenuti nei giusti recinti di legalità affinché non nuocciano oltre il dovuto. Sicuramente non avranno più un’oscena e pericolosa sponda politica alla Casa Bianca a certificare i loro deliri.

Una gran bella notizia per il mondo intero. Il tempo dei populismi forse sta andando in archivio. Forse la caduta di Trump scatenerà un effetto domino, aiutando la progressiva caduta politica dei vari Bolsonaro, Erdogan, Orbàn, Johnson, Putin, Salvini, Di Maio, ecc. ecc..

Qualcuno parlerà di “ritorno delle élite”, di ripresa del controllo da parte dei “poteri forti”. Ma sarà solo la coda dialettica di un delirio populista che nel mondo ha portato ad un arretramento culturale e di convivenza sociale devastante.

La normalità di Pino Scaccia

Il Covid si è portato via Pino Scaccia, giornalista Rai autore, tra l’altro, di tanti reportage da scenari bellici. Così descriveva sul suo blog, durante la prima ondata della pandemia, come ci stesse cambiando.

Per noi che frequentavamo il territorio comanche (“tu non vedi i fucili, ma i fucili vedono te”) la normalità arrivava dopo tre giorni, il tempo necessario per spezzare l’altra normalità. Tutte le paure avvenivano in quei giorni perché non ti eri ancora abituato agli spari, ad avere un mitra in testa, o a una bomba al ristorante. Poi diventava “normale”, ti addormentavi con la colonna sonora delle granate, ti mettevi al riparo quando cominciavano a sparare. Ricordo che a Valona le bande si affrontavano sempre all’ora di pranzo e maledicevi l’interruzione forzata di un piatto di spaghetti. Succedeva anche al contrario, quando da quella normalità di guerra tornavi a casa. Quando ci spararono alle porte di Baghdad ricordo che per mesi a Roma mi prendeva un colpo quando vedevo un pick-up.

Ecco perché saremo diversi.

Dopo mesi con il virus ci sembra che il mondo sia questo mondo, che la vita debba andare avanti così. Ci metteremo molto, a fatica, a ripristinare la normalità pregressa. Sono anche convinto che fra tre giorni, quando si aprirà un varco, soltanto un manipolo d’incoscienti si avvierà in massa verso la nuova situazione. Ma la maggior parte di noi stenterà a riadattarsi, metteremo in acqua un piede per volta, spaventati dal mare. Non si tratta di essere più buoni o più cattivi, saremo quel che siamo sempre stati, ma torneranno paure ancestrali proprio nel momento della libertà riconquistata. Tornando alle guerre, ho sempre pensato quanto sia difficile spiegare la pace a un ragazzo che vive in zone a rischio, ma ho anche pensato quanto sia molto più difficile spiegare la guerra a un nostro ragazzo.

Ecco, noi abbiamo scoperto la guerra. Sarà complicato riadattarci alla pace.

Il lutto del consumo

“Ripartire” e’ probabilmente la parola in assoluto piu’ usata nella pubblicita’ da alcuni giorni.

La conferma, se ce ne fosse bisogno, di come la pubblicita’, ed il suo eterno evolversi, sia una delle piu’ importanti cartine tornasole della nostra societa’ capitalistica.

Lo strumento principale attraverso il quale il mercato cerca di piazzare le proprie merci, la propria droga consumistica, diventa inevitabilmente la spia di come vanno le cose in societa’.

Ed allora, come gia’ credo fatto notare su queste pagine, anche la pubblicita’ e’ stata inizialmente colta di sorpresa dal covid19 e dal lockdown che ne e’ seguito. Faceva molto strano vedere, nei primi giorni di clausura e paura generalizzata, lo scorrere in tv di rilassate e ottimistiche pubblicita’ in cui le solite macchine fiammanti affrontavano viaggi nei soliti scenari meravigliosi in cui la vita puo’ portarti, solo con quella macchina, ovviamente. E che dire delle affollate tavolate che, grazie al prodotto alimentare di turno, rendevano felici e sorridenti i commensali.

Faceva un po’ come se, dopo l’esplosione della bomba atomica, in TV fosse rimasto in onda il nastro delle pubblicita’ dalla vita precedente. Il periodo di “sfasamento” o “asincronia” e’ durato pochi giorni. Perche’ la pubblicita’ sara’ pure l’anima del commercio e quindi manipolatrice di emozioni a fini commerciali, ma non puo’ in alcun modo permettersi di non rimanere sintonizzata sullo stato d’animo sociale. Deve seguire il mood di quella societa’ in quel momento storico. Cercando di condizionarlo e guidarlo con le proprie suggestioni commerciali, ma a sua volta adattandosi ai cambiamenti, soprattutto a quelli che non può governare o reprimere. Tipo una pandemia.

Fatto sta che il solito ottimismo del “vivi felice e scegli te stesso, scegliendo il prodotto” e’ stato prontamente sostituito con una melassa ancor peggiore, perchè ancor più ipocrita. Musiche riflessive e consolatorie per sorreggere testi di speranza, unione e fratellanza nel momento di difficolta’. Immancabile il “restate a casa”, diventato vero e proprio brand, condito in salsa di “andra’ tutto bene” e “ne usciremo migliori”. Gli immancabili marchi e prodotti reclamizzati sono finiti sullo sfondo, in educate trasparenze. Una sorta di lutto del consumo. Perche’, forse per la prima volta da quando esiste il consumismo, la societa’ si e’ trovata nell’impossibilita’ di praticarlo. Perfino Amazon, che il consumo l’ha portato alla frontiera dell’H24 a livello mondiale, ha dovuto mettere restrizioni sull’acquisto dei prodotti “meno necessari”.

Un lutto che ha confermato immediatamente ed inesorabilmente quello che da tempo sostengono i detrattori dell’attuale sistema capitalista: se si ferma il consumismo, ossia il consumo dell’ormai enorme gamma di beni e servizi più o meno voluttuari, il sistema economico collassa automaticamente. I numeri della recessione economica in arrivo lo dimostrano chiaramente. La nostra società, quella del benessere e della disponibilità di “tutto e subito”, dipende dalla ruota consumistica, figlia a sua volta del ciclo produci-consuma-crepa. Se smettiamo di correre, anche solo per poco, viene giù la ruota stessa.

Una buona notizia per tutti coloro che, tradendo un certo sciacallaggio, hanno ritrovato vigore nel teorizzare la fine del capitalismo. E poco importa se alla fine sarebbe stata una pandemia, e non le famose “cause intrinseche al sistema”, a decretarne l’agognata fine. L’importante è il risultato finale: l’abbattimento del capitalismo, la distruzione della ruota oppressiva. Per costoro sarebbe un problema trascurabile l’attuale mancanza di una reale alternativa al sistema capitalista, accertati i grossi difetti di fabbricazione del socialismo reale. L’umanità, secondo lor signori, può permettersi di veder crollare il sistema economico dominante per poi capire, con la dovuta calma e ordine sociale, cosa metterci al suo posto.

Non sembrano pensarla così i governi, compreso quello rabberciato e semipopulista che si è ritrovato a gestire l’Italia in questa storica fase. Che invece quella ruota hanno subito cominciato a puntellarla con ingenti iniezioni di denaro pubblico. Convinti che il capitalismo, seppur ampiamente imperfetto e dopato da un consumo che sempre più sembra servire a compensare la produzione di infelicità intrinseca al sistema, è l’unico sistema economico al momento disponibile. Mi sa quindi che per “la fine del capitalismo” anche stavolta sarà per un’altra volta.

In compenso, una branca piuttosto vivace del variegato mondo della critica al capitalismo, teorizzatrice della “decrescita felice”, potrà finalmente dimostrare al mondo la validità delle proprie ricette. Perchè una certezza, nel mare di insicurezze che il covid19 ha scatenato, c’è: la decrescita economica è un fatto, vanno solo accertate le dimensioni che assumerà. Se sarà felice o meno, avremo modo di saperlo. Le prime notizie non sembrano positive, purtroppo. Confermando che un capitalismo più povero, è destinato ad essere un capitalismo più cattivo innanzitutto con i più poveri, oltre che con l’intero ecosistema che sfrutta e governa.

Ma torniamo alla nostra cara balia commerciale di una vita, la réclame. Dicevamo della sua capacità di descrivere quasi in tempo reale le condizioni sociali di una collettività. Risultando un ottimo strumento anche quando si viaggia (o meglio quando si viaggiava), per capire facilmente in che contesto sociale si è capitati. La pubblicità, dicevamo, si è adeguata, suo malgrado, al lutto del consumo provocato dal covid19. In cuor suo desiderando, bramosamente, di poter bruciare le tappe affinché la ruota tornasse presto a girare. Quel tempo da un paio di settimane è arrivato. Ed eccola allora la parola destinata ad imprimere l’azione nelle menti di tutti noi consumatori: ripartire! Ricominciare a girare nella ruota. Per il bene della ruota e di tutti noi che ci giriamo dentro.

Covid19, rien va plus!

Mancano per fortuna ormai solo poche ore. La mitologica “fase2” sta per diventare realtà. Da domani, lunedì 4 maggio 2020, l’umanità italica reclusa in quarantena potrà parzialmente cominciare un percorso di riavvicinamento verso un’agognata normalità.

Forse proprio per farci riassaporare in anteprima un po’ di normalità, la politica ha deciso di portarsi avanti col lavoro, ripristinando con largo anticipo l’ordinaria qualità del dibattito. E così, sulle misure annunciate dal Governo per tentare di normare la “fase 2”, si è assistito ad un dibattito vuoto, strumentale e basato su speculazioni e previsioni che, esattamente come quelle scelte dal Governo, potrebbero rivelarsi presto illusori miraggi.

E’ ripartita l’eterna rincorsa al consenso politico, costi quel che costi. In nome dell’economia, della libertà e perfino dei morti, è cominciato un preventivo fuoco di fila sui provvedimenti governativi. L’esecutivo sarebbe reo di un approccio troppo prudente nelle “riaperture” e lo starebbe facendo con metodi da regime dittatoriale.

Peccato che il quadro di realtà, come dimostrano le esperienze di tanti altri paesi, più che l’assegnazione di torti o ragioni, consente al massimo scommesse. Perchè l’unica cosa certa al momento è che c’è un unico ed imparziale arbitro che può decretare la validità delle misure adottate: la circolazione del virus ed il numero dei nuovi malati. Se questo numero rimarrà basso, vorrà dire che saremo stati in grado tutti (Governo e cittadini) di trovare le misure per convivere degnamente con il virus in attesa arrivi l’agognato vaccino. Se invece il numero dei nuovi malati risalirà, si dovrà inevitabilmente rimettere il freno a mano ed accettare nuove limitazioni governative. A meno che non si ritenga utile (come inizialmente annunciato dagli “amici del popolo” Trump, Bolsonaro e Boris Johnson per poi dover fare goffamente retromarcia) un “muoia Sansone e tutti i filistei”, affidandosi al fatalismo più assoluto che manderebbe il sistema sanitario e mortuario in un caos altrettanto assoluto.

In mezzo a queste bande di scommettitori in ansia da prestazione elettorale si muovono i cosiddetti “esperti”. Un esercito di addetti ai lavori che in questi mesi abbiamo potuto ascoltare in quantità e qualità sui mass media a spiegarci il virus e l’epidemia, poi promossa a pandemia. Dapprima pendendo dalle loro labbra. Poi, via via che il tempo passava ed anche loro facevano qualche inevitabile scivolone dialettico, è arrivata l’ansia da “sì ok il virus è pericoloso, ma quando ci fate uscire dalla quarantena?“. Musica per le orecchie degli scommettitori politici, che hanno subito ricominciato a piazzare le loro puntate.

L’attesa è finita! Sta per scoccare il rien va plus!