La zingarata genovese dei giorni scorsi è alle spalle, ma c’è ancora voglia di capirle meglio quelle assurde giornate del 2001. Per leggere particolari che il presente dell’epoca, più che mai tumultuoso e caotico, ha inevitabilmente inghiottito e nascosto alla percezione anche di chi, come il sottoscritto, ne ha fatto parte.
Stamattina ho cercato e trovato su Sky Documentaries il documentario trasmesso pochi giorni or sono: “La sottile zona rossa”. Un documento che si concentra sulla giornata di venerdì 20 luglio 2001. Quella a cui io, dopo aver partecipato alle uniche manifestazioni pacifiche contro quel G8 andate in scena giovedì 19 luglio e subodorando la palese tensione che si respirava per quelle in arrivo, decisi di rinunciare, rimanendo al campeggio La Vesima con i miei compagni di viaggio di allora.
I testimoni scelti per ricostruire quella giornata sono vari e tutti molto interessanti. Innanzitutto la redazione di Primocanale, emittente ligure. L’unica che, disobbedendo agli ordini delle istituzioni, scelse di seguire il G8 non rimanendo dentro il fortino della zona rossa. Ci sono poi Don Gallo, Franca Rame, le tute bianche, la rete Lilliput. Ed infine c’è un comandante di battaglione della Polizia, la cui testimonianza è molto utile a cercare di comprendere qualche frammento di come quella giornata è stata vissuta da chi indossava la divisa delle forze dell’ordine.
Il tutto è molto ben assemblato e fa capire, a chi ancora non volesse capirlo, che quanto successo a Genova durante la riunione del G8, presenta una complessità che non permette il solito schierarsi per bande, in cui ognuno fa finta di credere di essere il buono e giusto contro i cattivi e violenti.
Genova è stata offesa in quei giorni da tanti. Al teatro blindato e farlocco preparato dal governo Berlusconi per ricevere gli 8 potenti del pianeta, si è risposto con l’allestimento di un altro teatro al di fuori della zona rossa. Un palcoscenico dove in troppi, ognuno con la propria divisa da combattimento, ha voluto dare il peggio di sè. Frustrazioni personali e rabbia sociale hanno trasformato Genova in un enorme fight club. Il Cigno Nero era nell’aria. Evocato all’infinito, quasi fosse un bisogno per ambedue le parti in lotta, è diventato realtà alle 17.27 di quel venerdì 20 luglio 2001 con l’immagine di un ragazzo steso in terra con una pallottola in testa. Perchè non c’è guerra senza morti. Perchè l’uso della violenza ha implicitamente il rischio che il dosaggio scappi di mano e cancelli la vita di qualcuno.
Non è una stupida voglia di fare il 50enne pentito ed improvvisamente democristiano. E’ piuttosto la sensazione che, scavando nelle ricostruzioni che solo il tempo ha permesso di accertare, e senza voler minimamente intromettermi nella dolorosa dinamica che ha portato all’uccisione di Carlo Giuliani, quel venerdì 20 luglio 2001 ha avunto tanti creatori/realizzatori concentrati sull’allestimento del fight club. Un allestimento che ha peraltro quasi del tutto cancellato le istanze politiche che quel movimento, pur nella sua enorme diversità e confusionarietà, cercava di portare avanti.
Ad un certo punto il comandante di battaglione di Polizia Andrei si chiede dove siano oggi quegli ex ragazzi del 2001. “Ognuno, come tutti, a difendere il proprio orticello acquisito”, si risponde, provocatoriamente. Una frase che mi sono sentito addosso, come un vestito su misura. A distanza di 20 anni da quei fatti e dalla mia partecipazione (nelle giornate di giovedì 19 e sabato 21), il mio attivismo politico è praticamente azzerato e mi sento ritirato appunto a badare al “mio orticello”. Rappresentato, volendolo sintetizzare, ma nemmeno troppo, da una famiglia e da un conto in banca. Che come cantava il genovese De André “danno rendite sicure”.
Certo, è indubbio che i fatti di Genova, con l’assurda e stavolta sì unilaterale repressione (stile dittatura latinoamericana) andata in scena sabato 21 luglio 2001, hanno fortemente consigliato una generazione intera a ritirarsi verso il proprio orticello per impraticabilità democratica del latifondo. Ma sta di fatto che, un po’ come era già successo alla generazione del ’68, ognuno ha smesso di pensare ad una salvezza collettiva per provare a salvare il proprio fugace tempo esistenziale.