Come un gatto…sul ponte

Ieri sera ho finalmente visto, dopo averlo sentito citare in varie occasioni, “Come un gatto in tangenziale”. Un film (italiano) uscito l’anno scorso, ma attualissimo nel richiamare il dibattito (mondiale) sui fenomeni di polarizzazione sociale dilaganti.

Il film, benfatto e ben recitato, sconta, come succede spesso a troppi film italiani, un’eccessiva grossolanità di alcuni personaggi e situazioni. E’ il caso soprattutto dei rispettivi (ex) compagni dei protagonisti del film (il think tank europeo Antonio Albanese e la borgatara Paola Cortellesi). Parlo del galeotto Claudio Amendola e della coltivatrice di essenze floreali in Francia Sonia Bergamasco. Anche le ambientazioni marittime risultano essere piuttosto stereotipate, con la ultravituperata Capalbio contrapposta a Coccia di Morto (Fiumicino).

Detto ciò, il messaggio che alla fin fine la “contaminazione” (una delle parole chiave del film) tra mondi sociali molto differenti può, seppur dopo aver superato barriere di ogni tipo, realizzarsi, il film è capace di raccontarlo, di suggerirlo, di auspicarlo.

Forse l’uso in eccesso di alcuni stereotipi sembra essere un peccato commesso volutamente dal regista. La necessità di fare un film “popolare” (obiettivo pienamente conseguito) ha vincolato il film dentro margini che l’hanno inevitabilmente reso meno capace di leggere tra le righe della complessità sociale. Allo stesso tempo però è stato il grimaldello per portare pubblico allargato ad un film che lavora proprio sulla necessità sociale di tornarsi a parlare e frequentare tra diversi.

Il paradosso culturale è sempre in agguato. Se per raggiungere il popolo devi dargli in pasto sempre e solo opere che in qualche maniera non lo costringano ad uscire dalle ristrette categorie mentali in cui la condizione sociale l’ha rinchiuso, le barriere culturali saranno sempre lì a dividere le masse popolari da sempre più ristrette elité culturali. Un paradosso che Milani racconta bene nel suo film allorché contrappone, in chiave ironica e quindi anche qui un po’ stereotipata, da una parte la mega sala cinematografica piena di un’umanità sguaiata, rumorosa e ruminante pronta a vedere il blockbuster di turno, e dall’altra la saletta del cinema d’essai semivuota in cui la borgatara Cortellesi si addormenta mentre sullo schermo proiettano un film francese recitato in armeno.

Finchè quelle due sale non saranno vasi comunicanti, riequilibrandosi in termini di dimensione e presenze, avremo un problema sociale.

Le elité o l’establishment o come diavolo vogliamo chiamare la minoranza più ricca economicamente e (sempre di più) culturalmente, è sicuramente disprezzabile nei suoi deliri di dominio isolazionista. Ma un popolo che fa vanto e arma della propria crescente ignoranza ed intolleranza, usando la propria maggioranza numerica per imporsi come presunto comitato di liberazione, è uno scenario forse perfino più inquietante. Ogni riferimento all’attuale maggioranza politica italiana (ma anche ungherese, polacca, russa, turca, statunitense, brasiliana, ecc. ecc.ecc.) è puramente voluto.

L’auspicio è che il gatto (la società) invece di finire in tangenziale (le elité o il populismo, che pari sono in termini distruttivi) imbocchi un bel ponte capace di collegare mondi diversi; creando rigenerante contaminazione culturale, economica e politica.

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