Ilva, la ragione è dei fessi

Una vicenda mostruosamente grande e mostruosamente complessa, da ogni punto di vista la si guardi. La più grande acciaieria d’Europa, costruita nella città di Taranto, con somma soddisfazione degli allora abitanti, che nell’acciaieria “vicino casa” vedevano il futuro, il progresso e soprattutto i redditi da lavoro. Oggi scopriamo che in realtà il futuro lo si vedeva davvero poco, altrimenti si sarebbe ragionato un po’ meglio sull’opportunità di mettere una bomba ecologica ad orologeria in piena Taranto.

L’homo economicus è fatto così, se gli metti davanti un’opportunità di miglioramento economico passa sopra perfino al proprio istinto di sopravvivenza. A proposito di acciaio e di progresso economico, Cina ed India stanno da anni rendendo irrespirabile l’aria delle proprie città per produrre acciaio (e non solo) da vendere al mondo. Evidentemente gli errori altrui non insegnano niente. Oppure è la conferma che, di fronte alla crescita del PIL, non c’è numero di morti per inquinamento che tenga.

Taranto la sua anima l’ha venduta all’acciaio già dal 1961 (lo stesso anno in cui veniva eretto il disgraziato muro di Berlino). La buona notizia quindi è che da qualche anno (più o meno dal 2012) si è tornati ad affrontare il problema. Per molti lunghissimi anni l’Ilva di Taranto è andata avanti fondandosi su un semplice quanto criminale patto di scambio: redditi da lavoro subordinato per circa 20 mila persone in cambio di profitti e morti da inquinamento (dentro e fuori la fabbrica). La massima espressione dell’homo economicus, appunto. La crescita economica, costi quel che costi.

Ad un certo punto però quel patto ha cominciato a traballare. Per le nuove sensibilità ambientali espresse in una Taranto non più completamente asservita al ricatto del reddito da lavoro? Solo parzialmente, purtroppo. La realtà è che a far dubitare sulla convenienza di perpetuare quello scambio tra denaro e morte è stato ancora una volta sua maestà il mercato. L’homo economicus, ancora lui. Succede infatti che nel frattempo il mercato è diventato mondiale. Milioni di aspiranti homo economicus erano disposti ad accettare quello scambio a condizioni ancor peggiori: redditi da lavoro più bassi in cambio di profitti e tassi di inquinamento più alti. Cina, ed ultimamente ancor di più India, entrano nel mercato dell’acciaio con i loro mostruosi volumi di produzione. Taranto inizia inevitabilmente la sua parabola discendente verso un destino già scritto: diventa un enorme ferro vecchio, inevitabilmente arruginito. Le ragioni dell’homo ecomomicus traballano. Si possono affacciare sulla scena le lamentele di chi quel patto lo ha contabilizzato soprattutto in termini di lutti e malattie. Ed è inutile dire che i conti (insieme alle persone decedute) non tornano.

Inizia così ufficialmente l’era del “coniugare le ragioni della produzione con l’ambiente ed il diritto alla salute”. Una frase che proprio ieri il nostro attuale Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha ripetuto ai giornalisti che chiedevano notizie sui destini dell’Ilva di Taranto. Una frase molto efficace nella sua capacità di evocare un  mondo giusto, ricco e pulito. Un mondo in cui si produce ricchezza, da distribuire in parte in salari, senza dover sostenere costi in termini ambientali. Mutuando le parole usate da Giuseppe Conte a proposito del 2019 nascente, si potrebbe dire “sarà un’Ilva bellissima”.

Ma la realtà continua ad avere questo brutto viziaccio di non sapersi/potersi arrendere nemmeno di fronte ai migliori storytellers. Così, mentre la politica si esercita nei salottini televisivi rinfacciandosi i soliti “ho ragione io”, la realtà è quell’immobile e gigantesco mostro fumante che sembra non voler offrire ragioni a niente e nessuno. O meglio, hanno tutti tremendamente ragione.

Ha ragione chi vuole che l’Ilva di Taranto non chiuda. 20 mila posti di lavoro persi sarebbero un disastro sociale.

Ha ragione chi vuole che l’Ilva chiuda. Non è possibile continuare a condannare i lavoratori dell’azienda e gli abitanti di Taranto ad ammalarsi e morire in nome della produzione dell’acciaio.

Ha ragione chi dice che non è possibile offrire scudi penali per permettere a qualunque proprietario di produrre acciaio continuando a far morire l’ambiente e le persone circostanti.

Ha ragione chi dice che è giusto che qualsiasi nuovo proprietario abbia diritto ad uno scudo penale per non essere accusato per le mancate precauzioni ambientali e sanitarie delle precedenti gestioni.

Ha ragione chi dice che l’Ilva di Taranto andrebbe nazionalizzata (fregandosene dei vincoli di bilancio europei) affinché lo Stato si incarichi dei necessari e costosissimi risanamenti e possa poi gestire la produzione di acciaio in un momento economico che vede tale produzione sempre meno conveniente per i privati.

Ha ragione chi dice che l’Ilva di Taranto andrebbe nazionalizzata (fregandosene dei vincoli di bilancio europei) affinchè lo Stato si incarichi di dismetterla in sicurezza per poi farsi carico in qualche modo dei redditi di quei 20 mila ex lavoratori Ilva.

Ha ragione chi dice che la nazionalizzazione dell’Ilva sarebbe una follia insostenibile considerate le condizioni in cui versano i conti dello Stato e l’appurata ineficcienza dello stesso nella produzione di qualsivoglia prodotto o servizio.

Stendendo un velo pietoso sul governo Conte gialloverde, ed in attesa di capire, storytelling a parte, cosa intende fare l’attuale governo Conte giallorosso, rimaneva quanto fatto nel governo Gentiloni dal vecchio ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda. Il tentativo di tenere insieme il mantenimento della produzione con un irrinviabile risanamento ambientale. Il nuovo proprietario Arcelor Mittal quell’accordo lo sta rimettendo in discussione e sembrerebbe voler prendere la porta d’uscita. Il che aggiunge nuove ragioni alle ragioni precedenti.

Ha ragione chi dice che lo fa perchè gli sono state cambiate le regole in corsa, eliminando lo scudo penale inizialmente pattuito.

Ha ragione chi dice che Arcelor Mittal si è in realtà resa conto di aver sbagliato i conti sul piano industriale e voglia uscire da quello stabilimento prima di doversi sobbarcare perdite ingenti.

Ha ragione (forse) perfino chi dice che l’acquisizione da parte di Arcelor Mittal era fin dall’inizio ispirata dalla volontà di suicidare poi l’Ilva di Taranto per eliminare uno scomodo concorrente di mercato.

La vicenda, la si guardi da dove la si guardi, sembra uno specchio rotto, incapace di restituire una soluzione riconoscibile, coerente e sostenibile. Ed allora forse sarebbe meglio che ognuno mettesse da parte la propria ragione, da contrapporre a quella dell’altro, per prendere tutti definitivamente atto che l’Ilva di Taranto è un enorme e complicato caso di trade-off. E come tale non offre soluzioni alla “e vissero tutti felici e contenti”. Bisognerà comunque accontentarsi di un compromesso. Che sia il migliore possibile dovrebbe essere l’obiettivo comune.

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